martedì 17 aprile 2018

SURFABLOG.COM INTERVISTA CARLO RIVETTI: IL CEO DI STONE ISLAND PARLA DI FUTURO, DRAKE, SUPREME, VIRGIL ABLOH E MOLTO ALTRO

Ieri Stone Island inaugurava la sua esposizione per il Salone del Mobile di Milano, chiamata “Prototype Research: Series_03” (per saperne di più clicca qui). Durante questa occasione, ho avuto il piacere di incontrare nuovamente Carlo Rivetti, il quale ricordandosi dell’intervista realizzata con me l’anno scorso, ha dato disponibilità per raccontarsi un’altra volta. Carlo è il proprietario di Stone Island e nel 1983 ha conosciuto Massimo Osti, che un anno prima aveva dato vita al brand. I due hanno collaborato creando una serie di giacconi con un logo caratterizzato dalla Rosa dei Venti, simbolo dell’amore per il mare e per la ricerca costante. A metà degli anni ’90, Massimo ha lasciato l’azienda, che da quel momento in poi è stata gestita da Rivetti. Vai su “Continua a Leggere”, per la sua intervista.


Rispetto allo scorso anno che ci siamo visti, com’è cambiata la tua vita ed il brand?
“La mia vita non è cambiata, se non per il fatto che ho due nipotine in più. L’azienda sta crescendo, vedo facce giovani al suo interno e questo è motivo di grande soddisfazione. Per il brand è un momento particolare, ovvero prosegue un trend di crescita (che controlliamo) iniziato 4-5 anni fa. I nostri capi non sono facilissimi da produrre e quindi facciamo investimenti grossi per la realizzazione, proprio per garantire ai nostri clienti quello standard qualitativo che abbiamo difeso in questi 37 anni”.

La difficoltà nel produrre i capi, penso sia il focus di base di questa nuova esposizione..
“Si vogliamo complicarci la vita haha!”

Com’è nata l’idea?
“E’ un vecchissimo procedimento tessile che viene fatto all’inizio sui fili di cotone, per pulire il primo filato dalle impurità. Noi l’abbiamo fatto in capo, quindi ci sono dei restringimenti medi del 25% ed in più abbiamo usato tre tessuti diversi che hanno restringimenti a loro volta differenti. Il bianco è enorme e l’arancione è più piccolo. L’abilità sta nel gestire i vari restringimenti per avere un prodotto in taglia.”

Quanto ci vuole per produrre un capo del genere?
“Il singolo capo richiede solo di tintura intorno alle 6 ore. In più c’è la fase di confezione. Se questo prodotto si muovesse senza nessun collo di bottiglia, all’interno di un’azienda ideale, potrebbe essere prodotto in circa 2 giorni.”

Come mai la scelta di produrre solo 100 pezzi?
“Questo è quello che noi chiamiamo “Prototype Research”, che è il nostro modo di testare procedimenti che non sono ancora industrializzabili. Produrre 100 pezzi ci permette di capire se riusciamo a renderlo un procedimento industriale”.

Il 2017/2018 penso si possa classificare come il periodo in cui il brand ha fatto il salto negli Stati Uniti, con l’apertura di diversi negozi. Immagino che parte del merito possa essere attribuita a tuo figlio, giusto? Com’è andata questa espansione?
“Sì, mio figlio prima si è occupato di calcio in Argentina, poi è rientrato per fare un master, dato che aveva voglia di sperimentare qualcosa di nuovo. Questo sbarco negli Stati Uniti è stata una start-up e quindi si è trasferito a New York. Ha fatto partire il marchio in America, aprendo negozi a NYC e a Los Angeles e rivedendo completamente la distribuzione. Poi c’è stato un colpo di fortuna, che nella vita bisogna avere.. Una mattina stava entrando in palestra ed ha incontrato un signore che si chiama Drake. Avevano entrambi il badge sul braccio sinistro (stemma di Stone Island), si sono guardati e hanno cominciato a chiacchierare. Drake era un nostro tifoso dall'età di 14 anni, quando sua madre gli ha regalato una nostra maglia. Dopo questo incontro con mio figlio, è nata la vicinanza tra il rapper e la nostra famiglia e siamo partiti negli Stati Uniti.”

Il negozio di Los Angeles è pazzesco (per saperne di più clicca qui)..
“E’ bellissimo.. Un’astronave. In più ci ha permesso di fare quello che era un mio sogno: parte del negozio è stata dedicata a uno spazio emozionale. Il consumatore americano non ci conosce e quell’area ci permette di raccontare quello che abbiamo fatto. Narriamo la storia di Stone, tramite una zona espositiva. Funziona molto: la gente guarda, cerca di capire, il personale gli racconta la storia. Non vogliamo essere un altro brand italiano che arriva in America.”

Ricordo anche di un pop-up a Toronto (per saperne di più clicca qui)!
“Sì e ha avuto un successo clamoroso. Quando vado in Inghilterra abbiamo un numero incredibile di tifosi, cosa che non pensavo di avere a Toronto. Questa cosa mi ha sorpreso davvero ed il primo giorno abbiamo venduto 96 pezzi e rimarrà aperto fino a Maggio. E' motivo di orgoglio per me vedere che il mio prodotto, anche in un mercato dove siamo meno conosciuti, venga trattato e considerato in modo corretto. Questo mi lascia pensare che in futuro avremo una bella presenza anche lì.”

Parlando di tifosi, Stone Island è stato un brand che è esploso inizialmente nel mondo degli ultras, vedi un’evoluzione di nuovo in quella fascia?
“Sì era un culto per gli Hooligans. Non credo.. Ma quando abbiamo aperto nel ’99 il primo negozio a Milano c’era una partita di Champions. Il Milan affrontava una squadra inglese, e noi eravamo preoccupati dall’invasione di questi tifosi ed avevamo preso una sicurezza composta da quattro ragazzi fuori allo store. Erano arrivati numerosi Hooligans ed erano entrati togliendosi il cappellino e iniziavano a parlare a bassa voce come dentro una cattedrale. Oggi i vecchi nostri tifosi sono rimasti e ad essi si sono aggiunti quelli nuovi, che non hanno il fenomeno dell’Hooliganismo nelle loro corde, ma è gente che ama lo sport e quindi mi trovo in totale sintonia. Adoro lo sport e come te sono interista. Mio figlio ha una squadra di calcio a 7 che si chiama Stone Island e stanno vincendo tutto.” 

Se il 2017/18 è stato il periodo dell’espansione negli USA, il 2018/19 sarà quello dello sbarco in Asia? 
“No, perché l’Asia è un mercato complesso e lontano. Non abbiamo ancora digerito gli Stati Uniti, dove siamo molto impegnati.”

I tuoi hobby invece quali sono? 
“Adoro sciare e tanti anni fa sono stato nella Nazionale B di sci. Il mio tempo libero è occupato dalla mia attività familiare, visto che inizio ad avere tanti nipoti, tutte femmine.. Faremo una squadra di calcio, di basket o di volley.”

Chi è il personaggio che ultimamente ha indossato Stone Island e ti ha sorpreso di più?
“Abbiamo tanti sportivi e Pep Guardiola va spessissimo in panchina con i nostri prodotti. Evidentemente piacciamo alla gente che è attiva. Sono tutti testimonial involontari, non è nella nostra politica averne. Sono decine i personaggi che indossano i nostri capi in modo del tutto spontaneo.”

L’anno scorso ti ho chiesto se c’erano in programma delle nuove collaborazioni ed eri rimasto un pò sul vago. Poi qualche mese più tardi è uscita quella con Supreme (per saperne di più clicca qui). Ti aspettavi che avesse quel riscontro?
“Sì perché ormai è la terza che facciamo con loro ed è un qualcosa che già conosciamo. E’ vero, ero stato sul vago. Quest’anno ti dico “no a nuove collaborazioni” e se le farò, saranno solo con Supreme e con Nike. Non voglio farne altre perché credo che il mondo delle collabo sia inflazionato: un’arma di marketing per muovere il mercato e per vendere dei prodotti, che magari non hanno dei grandissimi contenuti, nati da una collaborazione, al fine di ottenere dei prezzi migliori. Io ho fatto collaborazioni con brand e specialmente con prodotti che, rappresentavano in modo perfetto le anime dei due marchi che hanno unito le forze.”

Per concludere cosa ne pensi di Virgil Abloh in Vuitton?
“Penso che sia figlio dei tempi che stiamo vivendo. Per alcuni brand è meno importante il prodotto, ma preferiscono dare maggiore rilevanza alla comunicazione. Si sono accorti tutti che il mondo è cambiato e nel recente passato, i marchi che fino a poco fa erano totalmente ingessati nel comunicare, ora hanno modificato la rotta. Forse ne stanno approfittando troppo, nel senso che credo che l’operazione di Abloh sia una mossa legata di più ai suoi followers sui media, piuttosto che alla sua capacità. E’ una strada.. Io preferisco il prodotto, ma credo che l'alternativa sia comunque un modo corretto di agire. Non dobbiamo fare tutti alla stessa maniera e probabilmente a questo, ci sono arrivati prima i marchi francesi piuttosto che quelli italiani. I grandi brand nostrani sono ancora legati a pensare alle sfilate o ai mezzi di comunicazione che io trovo antichissimi. Pur avendo io una centralità del prodotto, capisco quell’operazione, ma non la condivido per me, per loro forse è la mossa giusta. La collaborazione che ha fatto Supreme con Vuitton ha aperto gli occhi a tantissimi, facendo rendere conto a tutti che c’è un mercato diverso. C’è un modo di fare moda che è antico e ora c’è un modo diverso per farlo. Off-White è stato fatto perché lui voleva arrivare lì e ci è riuscito. Per Virgil provo grandissimo rispetto, ma non lo prenderei nel mio ufficio stile.”

Ringrazio nuovamente Carlo Rivetti per la sua disponibilità e per il suo modo di fare, gentile ed alla mano, che lo rende un personaggio speciale.
Per leggere l’intervista che gli ho fatto l’anno scorso clicca qui.
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