giovedì 30 agosto 2018

SURFABLOG.COM INTERVISTA AMIR ISSAA

Conosco Amir da tantissimo tempo. La prima volta che ci siamo visti, ma non ci siamo presentati, avevo circa 15 anni ed ero in un locale di Latina per aprire con il mio ex gruppo (durante una delle mie prime jam), il live dei Colle der Fomento. Il collettivo romano si era presentato nella mia città con tutti gli esponenti del Rome Zoo, tra cui una giovane promessa del Rap che si faceva chiamare Cina. A distanza di anni, quel rapper ha cambiato nome d’arte, scegliendo quello di battesimo, ovvero Amir, e ha fatto molto parlare di sé per il suo contributo nella scena Hip-Hop italiana. Con lui ci siamo ritrovati anni dopo, abbiamo stretto amicizia, realizzato featuring, Exo è stato il suo dj per un tour e poi, abitando in città diverse, ci siamo persi, ma senza mutare la stima e l’affetto reciproco. L’anno scorso quel rapper ha pubblicato il suo primo libro dal titolo “Vivo Per Questo” ed ho colto l’occasione di queste vacanze per leggerlo. Devo dire che mi ha affascinato molto e che l’ho consumato in pochi giorni. Appena terminata la lettura gli ho telefonato per congratularmi e, visto che avevo diverse curiosità e domande da fargli, gli ho proposto questa intervista.


Com’è nata l’idea di scrivere un libro?
“E’ da quando ho vent’anni che, raccontando la mia vita attraverso il Rap, mi chiedono di scriverla in un libro. All’epoca non mi sentivo pronto e volevo fare più esperienze per poi poterle condividere. Quando mi ha contattato Chiare Lettere, un’ottima casa editrice, mi sono deciso di farlo all’età di 38 anni. Mi sono convinto di scrivere un libro perché è un mezzo di comunicazione che mi consentiva di potermi raccontare al meglio. Non dovevo limitarmi a 4 minuti di canzone o ad un tweet di 140 caratteri. L’ambiente della musica è cambiato molto, quindi ho cercato un’altra strada, sempre per raccontarmi e per sviscerare in modo più completo alcuni concetti. Il libro l’ho scritto immaginandolo come una canzone, ovvero con dei featuring, che sono i personaggi che sono al suo interno. Mi piace immaginarlo come un “Romanzo Hip-Hop”, perché quando è uscito i media hanno iniziato a chiamarmi chiedendomi “E’ una biografia? E’ un romanzo?” In realtà è una via di mezzo, e per questo ho coniato quella definizione.”

Quanto tempo hai impiegato per scriverlo?
“Ci sono voluti circa 3 mesi, ma non l’ho scritto da zero. Avevo già una base da cui partire, dato che in passato avevo scritto dei racconti, degli aneddoti e delle riflessioni. Da quando sono adolescente scrivevo questi pensieri nei momenti più importanti della mia vita, ed alcuni di essi sono diventati dei brani. Quando ho deciso di fare il libro ho ripreso tutto questo materiale e gli ho dato una forma narrativa, con un inizio ed una fine.”

A differenza di un disco vedo che l’hype di un libro può durare diversi anni, te lo aspettavi?
“E’ stata una sorpresa, ma parallelamente quello che succedeva nella musica mi faceva pensare che potesse essere una cosa realizzabile. Come ben sai nel Rap, oggi se esci con un album, l’attenzione intorno a quel disco può durare massimo qualche mese, con altro lavoro da fare come live e video. Un libro invece viaggia come faceva la musica negli anni ’90: non c’è una grande esposizione mediatica, a meno che non sia un best seller di un autore famoso. Una volta non avevamo internet, non c’erano i social network, ma le canzoni che facevamo in qualche modo viaggiavano, ed automaticamente ti ritrovavi dopo un pò di tempo ad avere ascoltatori in tutta Italia e neanche sapevi come fosse successo. Con il libro è la stessa cosa e non hai la necessità di andare primo in classifica, lo fai e basta. I lettori sono un pubblico nuovo per me: vengono ai festival, si segnano ogni parola che li ha colpiti, ti tengono un’ora dopo la presentazione a parlare del libro, e vogliono sapere tutto ciò che hai raccontato. C’è un’attenzione nell’editoria che è la stessa che una volta c’era nella musica. Chi si avvicinava a questo genere musicale ci teneva ad essere esperto, adesso il Rap è di largo consumo ed è una cosa di intrattenimento. Ora è lo stesso con i lettori, che non capitano ad un festival per caso, non si limitano all’estetica come nella musica. Per leggere un libro ci vuole una predisposizione per farlo ed una cultura diversa. Spesso chi ha letto “Vivo Per Questo” non conosceva la mia carriera artistica, ed ha scoperto i miei pezzi proprio dopo averlo letto, e questo mi da una grande soddisfazione.”

Da quello che ho percepito infatti, il libro sembra essere rivolto maggiormente ad un pubblico adulto, piuttosto che a quello adolescenziale Hip-Hop, vero?
“Dopo averlo pubblicato sono rimasto stupito che ci sono anche molti adolescenti che lo leggono, ma sempre indirizzati da un docente o da un fratello maggiore. Nella media in Italia non si legge molto, e chi lo fa sono persone più adulte. Il libro può essere letto da tutti, poi ovvio, chi è più grande può trovarci più spunti. Chi è più giovane può scoprire degli aspetti sul Rap italiano che magari non conosceva.”

Qual è stato il ricordo più difficile da scrivere?
“E’ stato la morte di mio padre in ospedale. Quando racconto che la sera che sono stato con lui in ospedale mi ha chiesto di comprargli un gelato, è stata l’ultima volta che gli ho parlato. Poi ci siamo salutati e durante la notte è deceduto. Raccontare quella cosa, riviverla e immergermi di nuovo in quel momento è stato doloroso. Tutto il libro lo è stato, ma finché parlavo di cose del passato ormai le avevo già metabolizzate ed elaborate. L’episodio di mio padre era una cosa recente, visto che era successa solo un anno prima. Riaprire quella ferita così fresca è stato molto molto doloroso. Scrivere il libro è stato per me come andare dallo psicologo. Alcuni aspetti della mia vita che non avevo affrontato, ho avuto l’opportunità di guardarli in faccia mentre lo componevo. Ci sono stati periodi che lo chiudevo, poi lo riprendevo, c’erano momenti faticosi, come prendere alcune bozze in mano, che mi pesavano. Dopo averlo scritto è come se avessi tirato un sospiro di sollievo.”

Come mai nel libro ti sei concentrato più sulla tua vita privata a livello familiare, piuttosto che in alcuni passaggi o rapporti nel Rap?
“Per due motivi. Il primo è che il mio obiettivo era quello di creare un libro che non fosse di nicchia, ed ho raccontato degli aspetti più interessanti per tutti e non solo per chi segue l’Hip-Hop. Il secondo è che ci sono dei personaggi nella mia vita che mi hanno ferito o che mi hanno causato delle esperienze superficiali che non volevo ricordare. Ho 39 anni, ed ho la consapevolezza di dire che non tutte le persone che ho conosciuto da quando sono piccolo hanno lo stesso peso. Chi ha lasciato qualcosa di buono mi è piaciuto menzionarlo in un certo modo. Altri invece li ho inseriti in modo marginale. E’ stata una mia scelta per non parlare di esperienze che ho vissuto e per non creare polemiche. Non ho usato quest’opera per togliermi qualche sassolino dalla scarpa, ma ho preferito non dargli peso. Probabilmente in futuro farò un libro incentrato sul Rap in Italia. Nella mia vita il Rap è stato un modo per esprimermi per tanti anni, però non voglio che la mia storia sia rappresentata solo da quello, perché mi sento un artista a 360 gradi. Mi piace dipingere, ho tante passioni, ed il mio percorso da qui ai prossimi anni sarà fatto anche di altro. Non me la sentivo che il libro venisse etichettato come la biografia del rapper Amir.”

Quali erano le tue aspettative una volta conclusa l’opera?
“Nessuna, visto che era la prima volta che scrivevo un libro. Contavo più sul pubblico del Rap che mi conosceva, piuttosto che su quello nuovo dell’editoria, invece è stato il contrario. Quasi nessun sito Hip-Hop ne ha parlato (anche perché ormai non ne è rimasto quasi nessuno) e molti che seguono il Rap si sono limitati a vedere la copertina. Mi sono creato un nuovo pubblico e questo libro è stata una rinascita. Nel Rap mi ero giocato tante carte, ed ora è un momento che in questo genere, tranne 2-3 nomi storici che ancora ci guadagnano bene, il resto è uno sgomitare per avere visibilità. Arrivato ad una certa età è giusto anche trovarsi delle alternative, ed io ho sempre preso spunto dai rapper americani che oltre a fare musica investivano in mille attività. Ho visto quello come modello, e a 45 anni mi piace l’idea di imprenditore oltre al Rap. Questa potrebbe essere la mia strada: nelle scuole già ci ero stato ed ora il libro è il mezzo per tornarci, anche in quelle straniere, infatti il viaggio americano continuerà. E’ una strada alternativa che consiglio anche.”

E’ come ho fatto anche io, però in altri ambiti..
“Esatto, bravo. Io ho trovato l’alternativa nel libro, te nel blog ed in altre attività. E’ intelligente per me non fare una sola cosa, e magari svolgerne altre parallele se si ha del talento. Ognuno di noi trova poi il suo percorso, ed è giusto che ci sia una nuova generazione com’è successo sempre. Mi da più soddisfazione questa storia del libro, piuttosto che sforzarmi di adattarmi al nuovo codice musicale dei giovani, provare ad andare in classifica, che se poi non va rischi la depressione. Mi sono trovato un’altra strada dove posso essere il numero uno.”

Qual è stato il complimento o apprezzamento più bello che hai ricevuto dopo l’uscita del libro?
“Nel libro ho accennato che mio nonno, il padre di mia madre, era fascista, una persona autoritaria che non vedeva di buon occhio la relazione di sua figlia con mio papà, che era egiziano. Molti della sua famiglia non hanno preso bene questo mio racconto e qualcuno mi ha anche scritto offese addirittura in pubblico (erano persone che non ho mai visto o conosciuto). Mentre c’è stata una parente di mia madre, professoressa in una scuola, che dopo averlo letto mi ha chiamato, ci siamo incontrati e mi ha abbracciato. E’ stata molto comprensiva su tutto ciò che avevo scritto e per me è stata una sorpresa.”

Cosa hanno detto invece le persone più vicine a te (tuo figlio e tua sorella) quando è uscita l’opera?
“Mio figlio ha letto il libro in pochi giorni e mi ha detto “Papà è bellissimo, non riuscivo a leggerlo in pubblico che mi veniva da piangere”. Lui se lo portava nello zaino, e quando era in metro lo leggeva. Per me è stato toccante. Mia sorella all’interno del racconto ha un ruolo importante, e a tutte le presentazioni mi chiedono di raccontare aneddoti sulla “leonessa”. Ho dato molto spazio anche a lei, con cui ho un rapporto molto profondo, visto che non abbiamo molti parenti e siamo solo io e lei. Attualmente vive in Spagna, ma siamo molto uniti e le voglio un gran bene. La soddisfazione più grande l’ho avuta grazie a mio figlio, dato che non mi aspettavo che lo leggesse. Mi ha ringraziato per aver fatto tanti sacrifici per lui. Tutti i genitori li fanno, ma non è detto che un figlio te lo riconosca.”

Ma a proposito, lui non fa Rap?
“Non lo fa, ma lo ascolta. Ultimamente mi ha fatto conoscere dei rapper che non avevo mai sentito (tipo i Tauro Boys), nonostante io stia sempre aggiornato. Ora però ce ne sono talmente tanti che non riesco a conoscerli tutti. Non è un appassionato di Hip-Hop ma lo ascolta come passatempo.”

Ma vorresti che lo facesse?
“Io vorrei solo che mio figlio fosse felice. Se lui è contento facendo il falegname è giusto che lo faccia. E’ ovvio che nel mio piccolo potrei aiutarlo e sarebbe più avvantaggiato rispetto ad altri, per tutto quello che ho fatto e per tutti i contatti che ho. Gioca ed è molto appassionato di basket fin da quando era piccolo, e si è avvicinato al Rap americano proprio grazie alla pallacanestro, dato che in America, e tu lo sai molto bene, sono due cose molto vicine. Se gli togliessi il Rap potrebbe non cambiargli nulla, mentre se gli portassi via il pallone da basket si sentirebbe male. Tutti i giorni va a giocare al playground per strada, ed ha una società con cui lo pratica a livello agonistico.”

Come sono stati i tour negli USA ed in Giappone?
“Fare un’esperienza in Giappone è stato come andare in un altro pianeta. Ho avuto il piacere di incontrare Shingo Nishinari, una leggenda del Rap ad Osaka, tanto che ha il suo volto dipinto su un palazzo. Il Rap giapponese non l’ho mai approfondito più di tanto, e conoscevo giusto qualche gruppo più commerciale come i Teriyaki Boyz. Una volta lì ho scoperto un altro mondo a livello musicale. Andarcì è stata una bella soddisfazione, ma non è per me un luogo d’arrivo. Il mio punto d’arrivo invece è l’America, ma quando sono arrivato lì ho avuto l’impatto iniziale con una cittadina chiamata Hanover.”

Ma come ci sei arrivato negli USA?
“Facendo i laboratori nelle scuole italiane, ho attirato l’attenzione di due docenti italiane che vivono negli Stati Uniti e si chiamano Graziella Parati e Tania Convertini. Sono delle leader dell’italianistica negli USA, ovvero dell’insegnamento della lingua italiana. Mi hanno proposto di fare un laboratorio di scrittura con gli studenti americani partendo dalle mie canzoni più storiche, come “5 Del Mattino” e “Straniero Nella Mia Nazione”. Era un’attività da svolgere a Roma e mi sono recato in una scuola privata americana a Campo dei Fiori, dove ho incontrato questi ragazzi. E’ andata molto bene e lei successivamente mi ha invitato in America. E’ partito tutto nel 2014, e quando mi è arrivato l’invito dal Darthmouth College, Flavio Zocchi, con cui lavoro, ha creato un tour negli altri college affiliati e siamo partiti per 10 giorni. E’ stata la mia prima esperienza negli Stati Uniti, e quando sono arrivato lì, ero convinto che fosse tutto come New York ed invece ero finito ad Hanover, che era come andare a Latina. Per me è stato uno shock: non c’era nessun afroamericano, c’era solo un pub, l’hotel ed un college bellissimo. Ho fatto in modo di andare a New York, dove sono stato per soli 2 giorni."

Com’è stata l’esperienza a NYC?
“Ho visto tutto il possibile ed ho girato lo street video di “Il Rap Mette Le Ali”. Per me è stata un’esperienza folgorante e una volta a NY mi sono detto “Io devo vivere qui, questa è la città dove dovevo essere nato”. Per 39 anni ho cercato di ricreare qui a Roma tutta quella cosa lì (graffiti, crew, Rap). Sono arrivato ad un punto della mia vita in cui io voglio vivere quella cosa. Voglio guardarmi intorno, respirarla e tu sai di cosa parlo. Quando ero lì ogni strada ed ogni angolo sembravano li avessi già visti, dato che o ci avevano girato un videoclip o una scena di un film. Non l’ho visitata ancora bene, dato che poi ci sono tornato solo altri 4 giorni.”

Il tuo sogno sarebbe quello di viverci?
“Sì, anche se tutti me lo sconsigliano essendo molto caotica e costosa. Non ci andrei mai a vivere con un’occupazione occasionale per farmi un’esperienza, ma se lo farò sarà quando troverò un buon lavoro nei college. Quando sono arrivato a New York sono proprio impazzito, è proprio la mia città. Tornerò di nuovo negli Stati Uniti, dato che ho rapporti con docenti e con le università. Questi viaggi sono una soddisfazione, visto che oltre a visitare tante città mi permettono anche di esibirmi nei college, dove tra l’altro fanno concerti tantissimi rapper americani famosi.”

Come mai nel libro non hai inserito nessuna foto? Io molte fotografie me le sono cercate su Google mentre lo leggevo...
“Io piano piano sto facendo degli storytelling sui social, pubblicando estratti del libro con una foto adatta. Funziona molto e la gente si immedesima. Non ho inserito foto per un motivo tecnico: le case editrici, come Chiare Lettere, non lavorano libri con le foto dentro. Se prendi tutta la collana di Chiare Lettere, dal libro più venduto a quello meno, non hanno fotografie all’interno. Quelli che le hanno hanno altri costi ed altri impianti di stampa. Per il mio primo libro andava benissimo così, ed inoltre gli da un tocco più maturo.”

Ora passo a due domande a livello musicale: cosa stai ascoltando in questo momento?
“Sto ascoltando spesso Casanova, un rapper molto street. Nella mia playlist classica ci sono Styles P, Jadakiss, Fabolous: sono la mia colonna sonora. Ultimamente ho scoperto, grazie alla mia compagna, IAMDDB, che fa R&B e Soul. Nel Rap/Trap (ormai in America il termine Trap non lo usano quasi più) ascolto le cose nuove per curiosità, ma difficilmente ci vado in fissa. Sono arrivato ad un momento in cui non ho più sempre voglia di trovare la novità e di cambiare. Conosco i miei gusti e ho le idee molto chiare su quello che mi piace nell’Hip-Hop.”

Tu sei proprio New York..
“Quando sono andato negli Stati Uniti ho visitato anche la West Coast: San Diego ed Orange County, ho frequentato la scena e sono stato con Parker Edison, un rapper storico di SD. Mi ha portato in dei cypher, ho fatto un podcast di un’ora e ho conosciuto il loro stile di vita. Questo si riflette nella musica, e qui devo fare un appello: se ascolti Rap in Italia e sei un appassionato, devi per forza andare negli Stati Uniti, altrimenti non capirai mai bene delle sfumature nello stile, nel vestiario e nella musica, che sono caratteristiche condizionate dall’ambiente geografico. Il Rap che fanno a NY è condizionato dallo stile di vita di lì e lo stesso avviene a LA. Andando sia nella West che nella East Coast, ti dico che mi sento di essere di quest’ultima, nonostante sia cresciuto a Torpignattara.”

Io uguale più East ed ho avuto la tua stessa impressione. Ma ricollegandomi a questo discorso in Italia: quando siamo cresciuti la scena romana era molto più hardcore rispetto a quella milanese. Pensi che ci sia ancora quella mentalità o c’è stato un cambiamento con la nuova generazione?
“C’è stato un forte cambiamento! Adesso tutti cercano il successo ad ogni costo e sono disposti a rinnegare tutto ciò che hanno detto andando a Milano. Provano a mantenere quell’identità hardcore, però un pò frivola se poi stanno tutti i giorni a Corso Buenos Aires a fare gli aperitivi con la scena di lì. Prima c’era un’identità forte: il Rap di Roma ne aveva una e quello di Milano un’altra. Ora senti i rapper di Roma che suonano simili a quelli di Milano e viceversa. Non sento più questo legame con il territorio, ed era una cosa che mi piaceva tanto perché rendeva l’Hip-Hop autentico. Se abiti a New York lo fai in un modo, mentre se vivi a Los Angeles lo fai in un altro, mentre in Italia non è più così.”

Ora devo farti una domanda sulle sneakers! C’è un passaggio nel libro in cui parli della Nike Air Force con la bandiera degli USA. Qual è la tua scarpa preferita?
“Quello era il periodo con la Virgin. Tutte le cose di cui la gente parla adesso, noi le abbiamo fatte 10 anni fa. La Nike mi regalava le sneakers, organizzava gli eventi privati e invitava me ed i Colle Der Fomento. Quando ho firmato con la major mi hanno portato in Posteria, che era un ufficio NikeID dove andavano tutti i calciatori, e li ho preso 2 paia di Air Max, 3 Air Force e delle jersey. Non sono uno che rivendica, chi ha seguito il mio percorso lo sa. Per quanto riguarda le sneakers, parli con un malato come te haha. La mia preferita è la Nike Air Max BW Classic Persian Violet Black White. Quella scarpa negli anni ’90 ce l’avevano i coatti, come con le Squalo. Nell’Hip-Hop io mi vestivo con quella roba e tutti mi offendevano “Vai in giro con le scarpe dei tecnaroli!” I miei amici si mettevano le Puma Suede, le adidas Superstar, ma io le indossavo quando ballavo breakdance e già mi avevano stancato. Mi piacevano le scarpe da running Nike, anche se in quel periodo non le indossava nessuno della scena.”

Per concludere, progetti futuri?
“Ho un disco che uscirà a Settembre, con un nuovo videoclip. Da poco ne è uscito uno girato da Frank Siciliano dal titolo “Quando Hai Perso Tutto”. Parallelamente a questo album, che uscirà in digitale, ci sarà un packaging fisico limited edition!”

Ringrazio Amir per la disponibilità. E’ stato un piacere approfondire la sua storia leggendo il libro e poi fare questa bella chiacchierata. Le foto del post sono state realizzate da Edoardo Cortesi. Per maggiori informazioni su “Vivo Per Questo” clicca qui.
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